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Approfondimenti

Luglio 2008. l’Apocalisse č adesso

“Nel mese di luglio 2008, la razza umana sfiorò la completa estinzione.” Una frase come questa non si può dimenticare, è quasi da epigrafe. Una frase da mandare a memoria per meglio entrare nel mondo di Conan il ragazzo del futuro, il serial cult diretto da Hayao Miyazaki, che compie trent’anni.
In realtà c’è poco da festeggiare, dal momento che – stando a quella tragica timeline – fra non molto le onde elettromagnetiche provocheranno una catastrofe (La Grande Catastrofe) cancellando miliardi di esseri umani dalla faccia della Terra. Ma prima che il cataclisma sommerga ogni continente, e fatti gli opportuni scongiuri, per carità pensate a una scelta: dove ci incontreremo la prossima volta? Indastria o High Harbor?
 
Altri tempi, stesso recapito cultuale
Come l’onda anomala che a un certo punto si presenterà possente e presuntuosa contro lo skyline dell’isola di High Harbor, anche Mirai Shonen Konan (1978) è un po’ l’anime più sconvolgente della storia dei cartoni animati giapponesi. Sconvolgente, in senso buono. Uno di quei titoli che, visti in differita di anni dalla messa in onda originale, tra noi umili ex ragazzini della generazione mazinga, possedeva un effetto dirompente capace di scagliare la forza dell’immaginazione oltre le dune sabbiose della nostra fantasia. Negli anni ‘80 parecchie cose dovevano sembrare ingenue e antiquate. Anche la tecnologia e il futuro possedevano una forma instabile, ideale per gli adepti della letteratura science-fiction o per chi nella Silicon Valley allestiva il nostro presente.
I cartoni del Sol Levante hanno sempre alimentato la fame di curiosità verso l’altro e verso luoghi che erano tragicamente decentrati rispetto all’ordinario. Che ci fosse un romanzo alla base di Conan, scritto dall’americano Alexander Key, era una di quelle aggiustature “letterarie” quasi di casa nel comune appropinquarsi alla materia dei toon giapponesi. Un’effrazione bella e buona alle logiche intoccabili di zio Walt (Disney) che forniva postura da tipini eletti, sorta di adulti in miniatura, ai quali lo schermo in bianco e nero della televisione pareva offrire inaspettatamente approdi culturali su cui altri non s’affaccendavano. Del resto se qui, nel futuro di Conan, c’era lo sconosciuto Alexander Key, altrove si poteva vantare conoscenza diretta con i romanzi di Louisa Alcott, Eleonor Porter, Jules Verne, Hector Malot, Edmondo De Amicis, Johanna Spyri.
Probabile che molti spettatori della serie abbiano dato retta all’istinto e cercato consolazione in qualche buco di biblioteca chiedendo di mr. Key (qualcosa di analogo lo hanno vissuto i Kappa Boys quando nel maggio 1999 scrivevano delle traversie incontrate per mettere mano ai diritti del romanzo The Incredible Tide (1970) per l’edizione italiana pubblicata da Kappa Edizioni). A leggerlo oggi si direbbe che il Conan televisivo è cosa assai diversa, più leggera e più screanzata, o forse soltanto succube del primo Hayao Miyazaki finalmente lasciato libero di fare quello che voleva.
 
Venti anni dopo la Grande Catastrofe
È confortante scoprire che si faccia iniziare la serie con la voce lontana, alta fra le nuvole, di un vecchio. Il “Nonno” a cui è affidato il compito di narrare i primi istanti di vita del cartoon, è uno degli ultimi testimoni del passato, colui che deve guidare nel mondo nuovo (un isolotto senza arte né parte) il nipote Conan. La vita a Isola Perduta, così si chiama l’isolotto, è il segno retorico di chi ce l’ha fatta per un soffio: precipitando lì con un “missile” vent’anni prima, a bordo del quale pochi disperati avevano tentato di lasciare il pianeta per poi sopravvivere grazie alla provvidenza e… a una inesauribile falda acquifera scoperta quasi per caso nella testa di quello stesso missile affondato nella roccia. Come sempre dopo un’apocalisse, la vita prende il sopravvento e in qualche modo riesce a rimettersi in piedi. E con essa i pochi superstiti di Isola Perduta, ignari se altrove fossero sopravvissute persone come loro.
Nella mappa di questo mondo azzurro e marino sappiamo che la vita ha ripreso in effetti a battere anche per altri uomini: gli straccioni dell’Isola di Plastip (usata come sito “archeologico” per i suoi cumuli sotterrati di immondizia, riciclati come materia prima); il continente deserto dove troneggiano le tre torri di Indastria (ultimo vessillo del vecchio mondo, quello ipertecnologico e guerrafondaio) sino al paradiso di High Harbor, il luogo più bello e pacifico dove abitare.
Ogni luogo sopra elencato è una tappa nell’evoluzione del ragazzo “selvaggio” Conan, chiamato a salvare la fuggiasca Lana e a intraprendere con lei una nuova vita tra la gente, lavorando e costruendo un futuro migliore (parole che arrivano dall’altro Grande Vecchio della serie: il dottor Rao). Non sarà impresa facile, visto che qualche rappresentante del vecchio corso ancora conta di sfruttare l’energia solare, risvegliare i giganteschi velivoli da guerra che riposano nel cuore di Indastria e conquistare il mondo.
È un mondo di adulti (Lepka, Monsley, Dyce) che combatte contro quello dei giovani, costretti a crescere in fretta per non finire schiavi o classificati come cittadini di serie A e B. In linea teorica, sia il romanzo di Key che la serie diretta da Miyazaki hanno argomentazioni che accendono discussioni e dibattiti importanti. Naturalmente nei 26 episodi di Conan il ragazzo del futuro si cela più che altro la personalità dello stesso regista, la sua vocazione ecologista e quel paterno senso di protezione nei confronti della Terra che tornerà più avanti. In più non si lascia scappare l’ironia per giocare con un “supereroe” come Conan (dal progetto dell’anime, riportato nel booklet dell’edizione dvd dynit: “Conan è esattamente come volevo che fosse. Volevo che sapesse volare, e ha volato. Volevo che potesse aggrapparsi con le dita dei piedi, e ci è riuscito. Conan non è Superman, […] però se si mette in testa di fare qualcosa, allora ci riesce”). Inoltre gli torna utile mercanteggiare con tutti i suoi desideri d’artista e le sue piccole debolezze per i tank, gli aerei da combattimenti, le enormi navi cargo abbandonate nel deserto o i più abbordabili traghetti colmi di gente per dare un significato epico e più realistico al suo lavoro d’esordio. Su tutto: la nostalgia per un mondo lontano, nonostante l’anno domini della serie sia il 2028, che ci riporta a vivere una vita agreste tra litorali pescosi, barchette in legno, mulini mossi dalla forza del vento.
 
Un cult di paradossale insuccesso
La storia di Conan il ragazzo del futuro la conoscono pure i sassi: dopo aver lungamente lavorato per altri registi in anime televisivi di notevole spessore artistico (i classici letterari di Nippon Animation, ad esempio), alla soglia dei quarant’anni a Hayao Miyazaki viene finalmente offerta la direzione di una serie tutta sua che dovrà essere trasmessa dalla rete di stato, la NHK. Il soggetto è lontano dalle tradizionali pretese dei produttori e anche tutto lo story line attraverso il quale il regista progetta e costruisce Conan è un concentrato di tematiche molto più adulte del solito. Una volta avviata la produzione, poi, sia i vertici di NHK che di Nippon Animation si rendono conto che, sì, Miyazaki è un tipo oltremodo geniale (bastava scorrere con gli occhi i disegni preparatori e gli storyboard) ma troppo scrupoloso e un filino dispotico. Una notazione che, in pratica, per l’epoca si tradusse in una spropositata spesa in yen, più alta di qualunque budget allora messo a disposizione per una serie a cartoni.
A peggiorare le cose si mettono gli indici d’ascolto che, alla prima messa in onda nel 1978, sono a dir poco catastrofici. Come sempre, il pubblico Miyazaki se lo farà piacere per frammenti, secondo un’abitudine che fortunatamente oggi è passata di moda. Era accaduto con Lupin III (1971), toccherà  Il castello di Cagliostro (1979), suo debutto nella regia cinematografica, esploderà con Il fiuto di Sherlock Holmes (1982), serie che egli lascerà cautelativamente dopo sei bellissimi episodi.
D’accordo sugli indici d’ascolto ballerini e infelici (meno del 10 per cento), ma allora cosa occorre per trasformare Conan in un anime di culto? Quasi tutti non hanno dubbi in proposito: c’è la poetica in fieri di Miyazaki, pronta a essere sezionata, divorata e digerita. Una poetica in cui si riconosce il suo interesse per la Natura e per l’ecologia. E dove riappare la morale dell’orfano eroe capace di affrontare e fare a pezzi un mondo di adulti imperfetto o vagamente dispotico: un lontano parente di questa idea era Hols non daiboken. Inoltre piace a molti l’idea che a un personaggio come Conan venga esplicitamente fatto capire che, per trovare un posto in questo mondo, occorra lavorare e integrarsi in armonia con la comunità. Un ideale politico e sociale al quale Miyazaki ha creduto fin dai tempi dell’università e della successiva assunzione in Toei Doga e che nel serial rivive ad esempio delle memorabili battute del capitano Dyce: trasformato in mastro ferraio dagli abitanti di High Harbor ma poi uccel di bosco quando occorrono braccia per la raccolta del grano (“Un marinaio non può fare il contadino!”).
A questo strepitoso concentrato di idee si aggiunge il felice legame artistico con Yasuo Otsuka, con il quale Hayao Miyazaki era cresciuto professionalmente in Toei e dal quale trarrà il giusto temperamento artistico per essere un vero animatore. Per realizzare Conan, il regista è andato insomma sul sicuro – come sette anni prima con Lupin III – e assieme all’amico veterano ha ideato il design dei suoi personaggi (con un Conan che ricorda proprio Hols) e numerose componenti del mecha design che vanno dal Falco all’aereo Giganto, dalla nave per compiere l’Esodo verso High Harbor al piccolo veicolo usato dal dottor Rao per fuggire da Indastria.
La magia è tutta lì.
 
© Nippon Animation Co., Ltd. 1978

 
 
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