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Cinema

Clint parla giapponese

Con “Flags of our fathers” aveva firmato un eccezionale film di guerra sul drammatico sbarco a Iwo Jima da parte dell’esercito americano, ora “Lettere da Iwo Jima” racconta la stessa pagina di Storia vista con gli occhi dei soldati guidati dal Generale Tadamichi Kuribayashi, interpretato dal sublime Ken Watanabe. Parliamo del grande vecchio Clint Eastwood e del suo nuovo capolavoro tutto in lingua giapponese.
 
Al cinema di solito in guerra si va soli. E i nemici stanno sempre dall’altra parte della barricata, pronti a sparare. Mai una volta in cui ti chiedi che genere di persone stai combattendo e perché. Sul grande schermo raccontare la guerra equivale anche a un corale e imponente sguardo posato sulla vita di tanti uomini, chiamati loro malgrado a obbedire a un compito più grande. È quello che chiunque di noi pensava prima di vedere “Flags of our fathers” (2006) e dopo aver ammirato lo splendore di “Lettere da Iwo Jima” (2007), i due film sullo sbarco a Iwo Jima diretti da Clint Eastwood che si possono benissimo considerare la lunga e dolente ricostruzione di una stessa drammatica pagina di storia. Che è costata la vita a oltre 7 mila soldati americani e a più di 20 mila giapponesi. I ritratti di uomini dannati e condannati, quelli verranno poi. Prima c’è l’avanzata della storia, un passato a lungo lasciato senza appello che non ricorre a strascichi retorici nel teatro bellico di oggi (parola di Clint), ma che risorge dalla spiaggia di quella famosa isola giapponese per incatenarsi a vita con la memoria storica. Come la celebre istantanea, quella di “Flags of our fathers”, capace all’epoca di risollevare il morale di un’intera nazione e rinvigorire il fiacco bilancio bellico per portare a termine il conflitto.
Dove c’è il clamore, l’assordante eco degli applausi che pedinano i superstiti dell’attacco a Iwo Jima, c’è dall’altra parte il silenzio emotivo di chi attende la morte e scrive ai familiari quasi come un ultimo appiglio alla vita, sapendo che da quell’avamposto forse non torneranno mai. Tra di loro ci sono persone semplici e umili come Baron Nishi (Tsuyoshi Ihara), il tenente Ito (Shido Nakamura) e Saigo (Kazunari Ninomiya), il quale spera di sopravvivere abbastanza a lungo per vedere la figlioletta appena nata. Il sangue versato su quella spiaggia, il loro coraggio e il loro sacrificio – spiega Clint Easwood – rivivono nelle lettere spedite a casa. E una volta di più, un film come “Lettere da Iwo Jima” è in obbligo con il ricordo di tutti questi uomini per raccontare una storia mai letta prima, capace di insorgere fra i pregiudizi e obbligare lo spettatore a riconoscere quanto “sia di estrema importanza per tutto il pubblico, non soltanto quello giapponese, capire che tipo di persone essi fossero”.
Due film realizzati per fotografare una sola realtà insomma, due film per descrivere ora l’uno ora l’altro schieramento in una sorta di analisi della battaglia attraverso i comportamenti individuali. Di questo Clint, uscito indenne da una combattutissima Notte degli Oscar che ha visto trionfare un altro grande vecchio del cinema americano, Martin Scorsese, è fortemente convinto e dice: “Nella maggior parte dei film di guerra con cui sono cresciuto, i buoni stavano da una parte, i cattivi dall’altra. Ma la vita non è così, e neppure la guerra. I miei due film non sono incentrati sui vincitori o sugli sconfitti: parlano degli effetti della guerra sugli esseri umani e su coloro che perdono la vita prima del tempo”. Così se in “Flags of our fathers” si rifletteva anche sul delirante effetto della fama e della popolarità mentre si ricostruivano le vicende attorno la storica fotografia con l’alzabandiera, in “Lettere da Iwo Jima” l’altra metà dell’interesse di Eastwood è tutto storico e si interroga sulle strategie difensive dei giapponesi guidati dal Generale Tadamichi e sul perché essi non temessero gli attacchi aerei e navali degli americani. Ma gli interessava pure capire l’uomo Tadamichi, uno che era vissuto negli Stati Uniti negli anni ’20 e ’30 e che già all’epoca riempiva decine di fogli bianchi per scrivere ai familiari in Giappone. Tra la montagna di libri letti, molti dei quali tradotti dal giapponese, Clint scova la chiave del suo film: “Il Generale Kuribayashi era un uomo molto sensibile e un padre amorevole, molto attaccato alla famiglia che gli mancava enormemente. Nelle sue lettere si percepisce la forza spirituale di ciò che egli era”. Dello stesso avviso la sceneggiatrice Iris Yamashita che aggiunge: “È incredibile pensare che quest’uomo di così buon cuore e padre affezionato fosse il comandante in capo a Iwo Jima”.
Il lavoro di scrittura della Yamashita, nippo-americana di seconda generazione, si è fuso con il rigoroso metodo di ricerca di Easwood che ancora una volta, dopo “Million Dollar Baby”, si è affidato a sua volta alla penna di Paul Haggis (Oscar per “Crash”) per delineare lo script da sottoporre prima di tutto alle personalità giapponesi più competenti sulla battaglia di Iwo Jima e ai nipoti di Kuribayashi e Baron Nishi. Lavoro che non culmina con le parole “The End” ma rivive di particolari aggiunti e nuovi aneddoti portati proprio dal parentado per incrementare l’alto tasso di veridicità alla vicenda che passerà sullo schermo.
Clint intanto passeggia sulla spiaggia dell’Isola. Ne ammira la tragica aura spirituale (“un luogo dove migliaia di madri hanno perso i loro figli, su entrambi gli schieramenti”) sullo sfondo di una natura aspra e nera. A Tokyo, il Governatore Shintaro Ishihara si prodiga per fornire tutta la collaborazione al regista americano, anche se non sarà ovviamente possibile recarsi su quella spiaggia a filmare le cruente azioni di guerra, ma altrove. Sempre qui nasce la decisione di affidare la parte del Generale Kuribayashi all’attore Ken Watanabe, che Clint conosceva già da tempo e aveva apprezzato in “L’ultimo Samurai” e in “Memorie di una Geisha”. Che fosse un interprete straordinario, lo sapeva bene. Eppure c’era qualcosa in più nella presenza statuaria dell’attore che giorno dopo giorno lo convinceva quanto fosse perfetto per il ruolo. Una volta accettato, Watanabe ha seguito il filo dei pensieri di sceneggiatrice e regista e si è lanciato in una personale battuta di caccia fra studi, letture e saggi per approfondire il personaggio che avrebbe “molto onorevolmente” portato sullo schermo. Si è perfino recato nella città natale di Kuribayashi e ha conosciuto e discusso con i nipoti dell’uomo: tutte sfumature e particolari in più che sono poi finiti nel copione definitivo.
Al di là ci sta il film vero e proprio. Realizzato durante la fase di post-produzione di “Flags of our fathers” con un Clint, regista settantenne sorprendentemente più in forma che mai, per nulla soggiogato dall’impiccio della lingua originale (Lettere da Iwo Jima è sottotitolato) e capace di regalare un autentico capolavoro. Ma per davvero. Una di quelle opere che restano impresse nella memoria, appunto, e che in un battito di ciglia supera il già ottimo ricordo del film precedente. Roba da autentici duri del cinema.
 
© 2007 Warner Bros.

 
 
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