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Editoriale - luglio 2011

Ken il guerriero. Il lungo addio

Quando nel 1983 uscì il primo episodio a fumetti di Hokuto no Ken della coppia Buronson e Tetsuo Hara, qualcuno disse che il mondo dei manga non sarebbe stato più lo stesso. Probabilmente è così. Tale opinione è anche più condivisibile se allargata a quelle due serie animate che nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso infiammarono il cuore dei fan. O di chi, timidamente, lasciava il nido rassicurante degli anime (cose tipo Heidi, le maghette o guerrieri nobili al soldo di robot e astronavi contro gli alieni invasori) per scoprire di che colore lugubre era il sangue, di che tempra erano fatti gli eroi muscolosi al limite dell’incredibile e che tipo di mondo poteva sorgere poco oltre il consueto disastro nuclear-apocalittico. Al cinema Mad Max era già passato almeno tre volte; le distese desertiche di Indastria pronte a inabissarsi per lasciare ai superstiti del cartoon sul maremoto per eccellenza (cioè Conan il ragazzo del futuro) due oasi verdi e finalmente pacifiche; la giungla tossica e dintorni di Nausicaä un luogo conosciuto da pochi eletti. No, decisamente, per chi navigava controcorrente nel meraviglioso mondo degli anime giapponesi occorreva qualcosa di più. E Hokuto no Ken, con le sue terre crudeli e ribelli era un posto come nessun altro. Aveva i requisiti giusti. Rispondendo peraltro alla domanda più inquietante: d’accordo, e adesso come si tira avanti in un mondo fatto così? La risposta la davano gli stessi infelici abitatori di quelle lande abbrustolite dal sole: vivere in attesa di un Salvatore. Senza prima farsi ammazzare o, peggio, senza cadere prigionieri di bande motorizzate a zonzo tra le vestigia di città e metropoli. Proprio come Mad Max aveva professato, comprese lacere pezze di pelle nera al posto degli abiti, o chiome leonine e creste di tutte le fogge a coronare la testa dei cattivoni tatuati. 

Ma Hokuto no Ken non è Mad Max. E’ l’anime che si presenta alla fine del mondo proclamando anarchia generalizzata, e intimando al fan del cartoon nipponico che, no, non a tutti è concesso l’ingresso in questo universo di violenza (abilmente mascherata o trangugiata con ironia), di prodezze per il bene dell’umanità e di una restaurazione che può avvenire solo con l’intervento di divine scuole di arti marziali. Se avvertite un sordo ticchettio e un micidiale conto alla rovescia vuol dire che già ci siete. La presenza del Salvatore si manifesta così, preferibilmente con esplosione finale della capoccia crestata e tatuata. Spesso con rigurgito di urla più letali di quelle di Bruce Lee e con ipnotico avanzare di dita che si muovono impazzite in ogni direzione, occupando ogni posto dei quattro punti cardinali e disegnando sui corpi costellazioni di zone nevralgiche che, ovviamente, condurranno alla dipartita chiunque non stia dalla parte giusta. Sotto il segno dell’Orsa Maggiore, ben inteso.

Quando Tetsuo Hara inizia il difficile cammino nell’arte del manga giapponese nei primi anni Ottanta, facendo quello che fanno molti debuttanti, cioè imparare il mestiere in una redazione di un grosso giornale a fumetti (meglio se capace di vendere settimanalmente oltre sei milioni di copie come “Shonen Jump”), ha già fatto sapere di amare, nell’ordine, Mad Max e tutto ciò che di motorizzato può trasformarsi in vignetta. Le biografie parlano chiaro: Mad Fighter, Crash Hero (solo disegni, però) e Tetsu no Don Kihote. Ma niente fraintendimenti: qui non c’è alcun antesignano di Kenshiro. Fare da assistente e discepolo a Kazuo Koike naturalmente ha nutrito bene il suo stile di disegno. Gli energumeni a venire di Hokuto no Ken con pompata di steroidi che solo i mondi distopici in rovina possono accogliere con benevolenza, dicono già molto. Per esempio che il fumetto giapponese del periodo è in forma. Energizzante e pronto a mostrare i muscoli. Poi ci stanno le arti marziali, che piacciono sempre, e qui è una miscela di pose e mosse strategiche che prende d’assalto manuali, tecniche di questo e quello… perché le divine scuole di Hokuto o quella di Nanto non sono mica inventate lì per lì giusto per occupare spazio nei balloons. Spirito e corpo sono due faccende serie che nel mondo dei manga finalmente acquistano una connotazione più fisica. E di questo, Tetsuo Hara può ringraziare il partner di una vita, colui che ha reso la sua stella più brillante nel firmamento dei manga: il signor Buronson. La seconda metà del successo dietro Hokuto no Ken, cioè, lo scrittore che con quattro parole messe in fila (“Tu sei già morto”) ha reso più sintetica la lotta tra il bene e il male. Anche in termini di secondi che l’eroe buono Kenshiro concedeva prima di farci scoprire, appunto, il lugubre colore del sangue.

Ma queste sono vicende che appartengono agli anni Ottanta. Appartengono a un mondo di fumetti che gioisce per le peripezie di Kenshiro, orfano di un amore e tradito da Shin e quindi costretto a vagabondare nel succitato mondo distopico, dovendo (suo malgrado?) salvare l’umanità e portare a compimento ciò che nelle stelle è già scritto. Perfino contro i suoi stessi fratelli. Un’odissea che ha trovato sul piccolo schermo una ulteriore consacrazione grazie alla serie diretta da Toyoo Ashida, poi rinnovata da un film tecnicamente ineccepibile e, quindi, da una mini serie di OAV che non ha messo mai tutti d’accordo. Cosa fare con gli anni Duemila? Semplice, ripartire da capo. O meglio: rifare il medesimo tragitto drammatico ma con l’imponenza del lungometraggio di serie A e la volontà di raccontare cose che non è stato possibile prima. Fedeltà al manga di partenza, dicono gli autori. Invece: fedeltà a un personaggio verso il quale esiste un debito di riconoscenza immenso. Detto da chi nella redazione di “Shonen Jump” ha lavorato per anni alla definizione di un mito dei fumetti; e detto da chi si è costruito una formidabile carriera in animazione, come il “supremo animatore” Jun’ichi Hayama.

La storia della saga in cinque capitoli Shin Kyuseishu Densetsu ormai la conoscono tutti. Si tratta di cinque episodi in soggettiva spalmati tra cinema (tre pellicole) e OAV, questi ultimi rivelatisi anche più entusiasmanti dei confratelli cinematografici (vedi: La leggenda di Julia). Cinque punti di vista sulla vicenda di cui La leggenda del vero salvatore, finalmente nelle sale italiane a partire dal 13 luglio, rappresenta il tassello conclusivo. A modo suo. Una pellicola che ha il sacro compito di proseguire sulla strada del venticinquennale di Hokuto no Ken: un evento che ha riunito Buronson e Tetsuo Hara, con l’aggiunta dell’allora editor Nobuhiko Horie il quale, per l’occasione, si è trasformato in sceneggiatore ufficiale della nuova saga. Saga che dietro le quinte non hanno esitato a paragonare a Guerre Stellari, più che altro per l’ordine cronologico e narrativo con il quale Shin Hokuto ha (ri)preso vita. La leggenda del vero salvatore inizia in sella al poderoso cavallo nero che condurrà Ken e Julia a vivere i pochi momenti di felicità dopo lo scontro con Raul. Occorre però che prima vengano narrate le vicende che hanno condotto a quel momento, subito dopo la rivolta di Shin e l’umiliazione inflitta a Ken, marchiato sul petto e lasciato agonizzare in mezzo al niente. Tra lupi famelici che esplodono miseramente (quanti secondi per loro?) e una banda di mercenari che rivendono Ken al panciuto governatore Siska, il nostro eroe trova la forza di reagire ai soprusi – pur restando lungo disteso per un bel pezzo di film. Anche dovendo per copione finire crocefisso e salvare la città dall’assedio finale del guerriero nanto ribelle Jugai.

Visto col senno di poi, Shin Kyuseishu Densetsu è allora un progetto che rispecchia qualcosa che va oltre la centralità del personaggio. E non è neppure una qualche forma di testardaggine degli autori, dopo il mezzo fallimento della mini serie di OAV. Kenshiro ha sempre fatto parlare di sé negli ultimi cinque anni. Una volta con il nuovo fumetto e il nuovo anime televisivo per raccontare vicende precedenti (Soten no Ken); un’altra volta con le edizioni de luxe del fumetto e, soprattutto, con nuovi one-shots dedicati ai personaggi di Rei, Rao e Julia (realizzati da Yuko Asada). Senza contare pubblicazioni speciali tipo il numero di “Comic Bunch” con la firma di Tsukasa Hojo: un nome che i fedeli della nuova saga hanno poi ritrovato tra i credits del film La leggenda di Hokuto. Se non è il padre di City Hunter a occupare tutto il trono, è qualche altra penna: da Takashi Hashiguchi a Katsuya Terada per un giro milionario di affari. Una proliferazione consumistica nel nome di Ken, che non ha disdegnato il mercato dei videogiochi, e neppure le pellicole live action come quel film così così del 1995 che resta un vago ricordo d’infanzia. Ma solo in questa rinnovata veste il fenomeno si è tenuto per sé i “divini” nomi del trio Buronson-Hara-Horie. E per tante buone ragioni.

La prima e più importante è la faccenda del budget che Toei Animation non ha potuto investire in un nuovo progetto. Siccome lo studio ci aveva messo il nome all’epoca della serie tv, con risultanti encomiabili ma anche altalenanti, era logico attendersi una rimpatriata in grande stile. Peccato però che la cifra richiesta per il progetto Shin Hokuto è fuori portata per Toei. Fosse solo questo. Ciò che ancora oggi avvelena maggiormente l’affetto degli appassionati è la mancanza nel nuovo staff di Toyoo Ashida, Masami Suda, Hironabu Saito e Jun’ichi Hayama. In pratica coloro che, vedere la seconda serie televisiva per credere, hanno reso Kenshiro il cult televisivo per la generazione anni Novanta. In particolare Hayama, negli anni sempre devoto a Ken ma impegnato in attività a latere che l’hanno tenuto distante dall’animazione dei nuovi film. Un doppio delitto se pensiamo che la sua carriera è iniziata proprio lì. Prima supervisionando gli intercalatori nel film del 1986 e poi promosso a sakkan nella nuova stagione, prendendo il meglio del meglio da Masami Suda. Non c’è fan che osi negare l’evidenza/invadenza artistica di questi signori. Forse nessuno conosce televisivamente Kenshiro meglio di loro.

Oggi la nuova saga, e il nuovo film nelle sale italiane, è faccenda di Toshiki Hirano e Takahiro Imamura. Anche quest’ultimo un dipendente Toei ai tempi di Dragon Ball Z e One Piece e incaricato di condurre Kenshiro sotto una nuova luce supereroica. Tra il dire e il fare, in una pellicola di animazione, ci stanno tanti compromessi. Evidentissimi in questo progetto: l’eleganza muscolare dei personaggi, l’inserimento di animazioni di qualità superiore alle aspettative, nuovi colori, una fenomenologia narrativa che dovrebbe mettere a tacere le contrastanti opinioni dei fan. Insomma un lavoro che Tetsuo Hara e Buronson avevano messo in preventivo quando in testa al loro planning (svecchiare un culto manga vecchio di vent’anni) doveva starci aderenza alla storia originale, restituendo maggiore credibilità al soggetto di partenza e come esso fu sviluppato a fumetti.

Se Shin Kyuseishu Densetsu ha oggi un nome, una posizione e una sua forma definitiva lo dobbiamo anche alla tenacia che ha legato assieme tutte queste persone. E visto che i soldi non li poteva sganciare Toei, nel 2004 viene fondata North Stars Pictures grazie a finanziamenti ottenuti tramite la banca Sumitomo. Una società nata appositamente per Kenshiro ma negli anni impegnata anche in altri progetti (Tetsuo Hara ha firmato ad esempio un lavoro per bambini intitolato Bonoron – The Warrior of the Forest). Al vertice dell’azienda ci stanno lo stesso Hara, Tsukasa Hojo e Nobuhiko Horie in veste di amministratore delegato: posizione strategica ideale per uno che nei primi anni Ottanta era capo-redattore di “Shonen Jump”, quando il settimanale riusciva ad acchiappare dai quattro ai sei milioni di lettori la settimana. Sarà quel che sarà, ma vista con sentimento da nostalgici, un’operazione commerciale di grande respiro  come questa – l’impegno profuso in questi cinque lavori animati è enorme – ha decisamente tutta l’aria del più costoso regalo che si potesse fare a Kenshiro. Pronti dunque a entrare per l’ultima volta nel mondo di Ken?

Mario A. Rumor

 
 
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