La signorina in questione in verità aveva sempre avuto gli occhi verdi. Maurice Leblanc l’aveva immaginata addirittura di un colore verde giada: un’attrazione per l’Arsène Lupin protagonista del romanzo La signorina dagli occhi verdi, pubblicato a puntate su “Le Journal” nel 1926 e servito, cinquant’anni più tardi, da aggancio al film di animazione di Hayao Miyazaki. Onde evitare atti di ribellione da parte degli intenditori di monsieur Leblanc, diremo che il buon Miya-san – giusto per non tradire la sua indole artistica – da quel romanzo ha prelevato il minimo indispensabile (il meccanismo del lago). Per poi far quadrare il cerchio passando con nonchalance all’altro celebre romanzo di Leblanc, Arsène Lupin e la contessa di Cagliostro, saccheggiato anch’esso il necessario per costruire il “suo” Cagliostro. È nella natura del celebre animatore prelevare, riadattare e ricostruire il materiale che più lo ispira. Nel suo film infatti, tra le altre cose, la signorina in questione ha un paio di occhioni azzurri che suscitano brividi romantici in chi la guarda. E se Lupin sospira malinconico dopo l’ultimo abbraccio con la ragazza, lo zelante Ispettore Zenigata risale il pendio pronunciando la sua battuta più dolcificante (“Ha rubato il tuo cuore, figliola”) ligio al dover di incriminare Lupin per qualsiasi cosa. Anche un frizzo d’amore.
La signorina dagli occhi azzurri è naturalmente Clarisse (leggetelo come vi pare, in una vita precedente è stato perfino Clarissa), la sposa in fuga a bordo di una Citroen 2CV malmenata dagli sgherri del Conte Cagliostro. L’incontro in verticale con Lupin, entrambi agganciati a un sottile filo, è l’inizio di un’avventura che ci catapulterà dentro e fuori le mura del vecchio castello. Sino al più imprevedibile dei finali, con un tesoro davvero troppo grande per le tasche del signor ladro. Va detto che la signorina dagli occhi azzurri non è esattamente l’ideale femminile miyazakiano. Clarisse è all’apparenza fragile, rassegnata. Semmai è l’ideale femminile che un principe azzurro può soccorrere e restituire agli affetti e a una vita migliore. Un principe azzurro come sarebbe piaciuto essere a Miyazaki. Tutto questo Clarisse non lo sa, segregata nella torre più alta del maniero. Per farle cambiare idea in un istante, basta la romanzesca epifania dal cielo stellato di un signor ladro che le offre un anello e una piccola magia: far apparire tante bandierine da una rosa di cartapesta.
Il signor ladro che deve piacere anche ai bambini
Il Castello di Cagliostro lo riconosci per due fondamentali ragioni: è la prima regia cinematografica di Miyazaki, ed è anche il solo Lupin animato che si discosta dalle atmosfere adulte di fumetto e serie televisive. Non perché di mezzo c’è lo stile inconfondibile di disegno del regista giapponese, ma per il pubblico a cui Tokyo Movie Shinsha volle destinarlo nel lontano 1979. Vale a dire, il pubblico di ragazzini. Che non basta ahinoi a salvarlo dal box office nipponico (500 milioni appena di yen incassati), pur avendo ancora il sostegno della seconda serie che in televisione impazzava e a cui lo stesso Miyazaki aveva in parte contribuito con la regia dei due famosi episodi 145 e 155. Al di là della fiabesca trama (qualche attento spettatore avrà notato somiglianze con Il Gatto con gli stivali del 1969), Il Castello di Cagliostro è soprattutto la storia di un gruppo di artisti trovatosi nel posto giusto, al momento opportuno. Pensate a cosa sarebbe sembrato il film se Yasuo Otsuka, il vero maestro di Miyazaki e sakkan del lungometraggio, non lo avesse convinto a realizzare le animazioni presso il Telecom Animation Studio. Qui c’era l’animatore Kazuhide Tomonaga, per esempio, che si ritrova a gestire l’intera sequenza dell’inseguimento lungo i tornanti di Cagliostro (quella a inizio film), perché al collega Yuzo Aoki non garbava troppo lo stile di Miyazaki. Qui ci stava nientemeno che l’illustratore Nizo Yamamoto, colpevole di aver reso più che incantevoli i paesaggi del minuscolo staterello di Cagliostro. Senza risparmiarsi fra interni ed esterni del castello: per modellare il quale, prima c’è l’ossequioso Miyazaki che onora il maestro francese Paul Grimault di Le Roi et l’Oiseau, quindi il saccheggiatore molesto di mezza iconografia castellara europea (le cui foto erano appiccicate alle pareti dello studio). Che poi, al di là del successo tardivo, Cagliostro sia diventato un classico è ragionevolmente riconducibile al cinema che Miyazaki voleva fare e che lo vedrà trionfare soltanto in seguito. Un cinema energico, qualitativamente ben rappresentato, tecnicamente complicato (perché l’animazione non è cosa per mani di pastafrolla), con vago retrogusto fiabesco e infantile e la certezza di aver reso il ladro gentiluomo di Maurice Leblanc, gentiluomo e basta.
Mario A. Rumor
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