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Editoriale - febbraio 2014

A proposito di Cosette

Victor Hugo non è precisamente l’autore che ti aspetteresti di vedere ospitato nel Sekai Meisaku Gekijoo. Per gli sceneggiati, magari quelli italiani della RAI nei gloriosi anni Sessanta (prendiamo Gastone Moschin nel 1964, con la regia di Sandro Bolchi), o per il cinema di Hollywood è sempre uno scrittore super gradito. Per un cartone animato può rivelarsi invece un boomerang. Se non altro dopo aver constatato chi in realtà trionfa in quel calderone televisivo della lacrima facile – o festival della tristezza, ebbene sì – dove le opere letterarie sono appositamente scritte per il pubblico più giovane. Anzi, per la verità non è tanto questione di target, ma di motivazioni. Che rendono la letteratura per l’infanzia un formidabile specchio dell’anima, senza rammarichi di sorta. E per certa televisione è una manna dal cielo. In termini di scrittura, ovviamente.
 
“Les Misérables” ha però un invidiabile asso nella manica: la piccola Cosette. Più orfanella di lei, chi altri? Beh sì, in effetti, c’è una certa ressa tra gli orfani dell’animazione: ma quanti hanno sofferto le pene dell’inferno? Oltretutto con retroscena storico mica da ridere. Di Francoforte puoi sempre liberarti con pianto catartico fra i monti (Heidi), della Parigi post-restaurazione un po’ meno. Una mamma la puoi ancora rintracciare dopo lungo pellegrinaggio (Marco), e i surrogati (da zia Polly a Marilla Cuthberg) sono un’alternativa alquanto confortante per i cuori solitari. Ma quando una mamma è morta, è morta. Punto. E con il tragitto odioso, prima del trapasso finale, che Victor Hugo riserva a Fantine, possiamo solo immaginare il ludibrio drammaturgico di chi ha messo in effetti le mani sulla bella serie animata “Les Misérables – Il cuore di Cosette” (2007), aggirando l’ostacolo più ingombrante facendo semplicemente finta che non esistesse. Della serie: son tutte sante le mamme del mondo.
 
E perché piace “Il cuore di Cosette”? Forse per quella cosa che scriveva Edward M. Forster a proposito del romanzo: “La prova finale di un romanzo sarà l’affetto che proviamo per esso, come avviene per i nostri amici e per tutto ciò che non possiamo definire” (“Aspetti del romanzo”, Garzanti). Che nella serie prodotta da Nippon Animation, inoltre, ci sia di mezzo una questione di affinità da promuovere a tutti i costi, affinità lasciata coagulare in modo che le pettinature dei personaggi risultino gradite al pubblico che sguazza nel moe, appare quanto mai evidente nel chara design scelto da Hajime Watanabe (classe 1957) e Takahiro Yoshimatsu (classe 1965). Con manifestazione di miracolo tanto atteso dai fedeli del Meisaku: ovvero, il ritorno dei big eyed, azzurri e poetici, disegnati molto più grandi di tutti gli altri personaggi. Un po’ come quelli di Anne Shirley, rispetto agli altri protagonisti di Green Gables e zone limitrofe. Banalmente più umani e adulti. E per Cosette è uguale. Né Jean Valjean, né Javert possono vantare simili circonferenze oculari. Come a dire: con noi il dramma non cambia, restiamo saldamente fissi nelle pagine del buon Hugo (finale a parte, visto che poi Javert non si getta nella Senna).
Ma al di là delle formalità grafiche o delle scelte di genuino marketing per incuriosire il pubblico più giovane (e magari confondere i super appassionati del Meisaku, che un attimo prima avevano assaporato il classicismo di un Porphy e, un attimo dopo, tornano in Nuova Scozia con la piccola Anna dai capelli rossi), “Il cuore di Cosette” è anche un riuscito tentativo da parte dell’animazione di abbordare i romanzoni d’un tempo e condensarli nei canonici 52 episodi. Forse come alternativa al vuoto creativo. I capolavori della letteratura sono diventati sempre più spesso il ricettacolo della nuova televisione a disegni animati: da “Il conte di Montecristo” imbevuto di colori e sfondo futuristico, a “Genji Monogatari” del compianto Osamu Dezaki che, anziché omaggiare il fumetto di Waki Yamato, è andato ad abbeverarsi direttamente alla fonte letteraria.
 
“Il cuore di Cosette” piace soprattutto perché anime sottilmente femminile. Nippon ha affidato a una veterana, Tomoko Konparu, il ruolo di “kyakuhon shirizu kosei”, cioè l’organizzazione narrativa della serie. Lei che, nonostante una lunghissima carriera negli anime, ha ancora simpatie per la sua formazione drammaturgica. E con lei le altre firme che sono andate a impreziosire l’anime: le signore Miho Maruo e Mamiko Ikeda (anch’esse provenienti dalla stesso bacino) e lo scrittore Masahiro Yokoyani. Proprio alla Konparu, per la cronaca: una delle scrittrici preferite da Dezaki, dobbiamo alcuni degli episodi più belli della serie. Se li prende lei tutti gli onori, scrivendo il primo episodio e tenendosi ben stretto quello conclusivo. Nel mezzo ci regala momenti da ansia perpetua, mentre la “liberazione” di Cosette dalle grinfie dei Thénardier si avvicina sempre più. E tra questi, l’orrore di vedere una Fantine sfigurata dalla fame e dal freddo un attimo prima dell’arresto da parte di Javert. E se il sollievo di accontentare il network ha trovato – di nuovo: banalmente – negli occhioni azzurri di Cosette o in quelli da autentica nemesi di Éponime il carburante espressivo per fare lo sgambetto al Sekai Meisaku Gekijoo più tradizionale, nessuno potrà contestare agli sceneggiatori della serie di aver mancato in profondità e introspezione. Uno Javert così non capita infatti tutti i giorni. E meno male. Ma non ce ne voglia, Jean Valjean.
 
(Mario A. Rumor)

 

 
 
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